ANTONIO FOGAZZARO E GIOVANNI SEGANTINI: DUE VITE PARALLELE
Nec prope nec procul: forse soltanto sentenziando in questo modo è possibile associare due figure artistiche – quella di Antonio Fogazzaro (1842-1911) e quella di Giovanni Segantini (1858-1899) – che, seppur coeve ed entrambe di già riconosciuta fama, non ebbero occasione di incontrarsi né di intrattenere rapporti tra loro.
Nel cogliere le possibili “affinità elettive” tra queste due figure emerge, infatti, una storia di reciproca appartenenza certamente immaginata (ma forse non del tutto immaginaria) che racconta di due uomini che conobbero il dolore e che riuscirono per mezzo della loro arte a trovare il giusto antidoto attraverso l’anima, i sentimenti del cuore, l’amore per la bellezza. Protagonisti della cultura italiana di fine Ottocento, incrociarono – separatamente ed anche intimamente – diversi personaggi con i quali interloquirono, fornendo probabilmente le premesse di un accostamento in cui è possibile riconoscere, per larghi tratti, una sintonia artistica condivisa in cui l’immaginazione del poeta e la capacità d’osservazione del pittore s’intrecciano in una profondità di pensiero comune ad entrambi.
Non si conobbero, ma certamente conoscevano e sapevano l’uno dell’altro. Tale aspetto può essere inequivocabilmente desunto dalla lettera inoltrata alla direzione del «Marzocco» del 6 gennaio 1897, laddove Segantini esprime – con la sua istintiva franchezza – una stizzita perplessità circa la nomina di Fogazzaro al Senato: «Mi sento stomacato dal modo in cui fu nominato senatore il Fogazzaro».
Potrebbe dunque non essere inveritiero che Segantini, nella sua piccola ma qualificata biblioteca, annoverasse a fianco di Neera e D’Annunzio anche alcuni libri di Fogazzaro. Viceversa, decisamente casuale è la circostanza che Malombra, il primo romanzo di Fogazzaro, del 1881, fosse ambientato sulle rive del lago di Segrino, ovvero nei luoghi in cui Segantini svolse le sue prime esplorazioni ricognitive del paesaggio negli anni 1881-1886, tanto che se ne serba memoria nel cosiddetto “faggio del Segantini” sui pascoli alti del Cornizzolo (purtroppo sradicato da una bufera nell’autunno 2015). Parimenti casuale è anche la labile e temporanea vicinanza verificatasi nella primavera del 1883 tra la residenza estiva di Fogazzaro ad Oria, in Valsolda, e quella dell’ennesimo trasferimento di Segantini a Castagnola, presso Lugano, ovvero in località che non distano tra loro neppure una decina di chilometri. (FRANZ SERVAES, Giovanni Segantini, la sua vita e le sue opere, La Grafica, Mori TN 2015, p. 46: «All’inizio del 1883, ancora in inverno, con un amico fece una gita sul lago di Lugano, arrivando fino a Castagnola, dove il compagno di viaggio possedeva una casa di campagna. Rapido ed entusiasta, come soleva essere Segantini in queste cose, decise di rimanere ad abitare lì, e affittò una villa. Tornato a Pusiano, diede disdetta della casa che fino ad allora aveva tenuto in affitto; non era nemmeno la primavera che caricò moglie, figlio e la scarsa mobilia su un autocarro e, come fosse un emigrato, prese la strada per Campagnola. […] No, non era quella la terra dei suoi sogni. […] Con una decisione altrettanto rapida di quella che lo aveva portato a trasferirsi in quel luogo, fece i bagagli e se ne tornò in Brianza»).
Non è, invece, casuale che un certo tratto del loro atteggiamento li abbia connotati con una comune versatilità culturale, leggendo e studiando quanto d’importante avveniva in Germania, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi: un’esperienza da cui trassero senz’altro enormi stimoli per la loro crescita intellettuale. Non appena si ponga attenzione ad un loro stato d’animo che, nella pittura dell’uno e nella scrittura dell’altro, ha costituito il tessuto connettivo in molte opere sfumate di un idealismo artistico non comune, si può cogliere appieno un affiatamento che non tanto casualmente li accomuna.
Infatti, non solo per importanza ma anche per precise peculiarità artistiche, tanto Fogazzaro quanto Segantini riscossero ampi e sinceri apprezzamenti sia da parte degli addetti ai lavori sia da parte del pubblico, giacché venne universalmente intravisto che la cifra artistica delle loro opere marcava – con segno pesante – l’ambiente dei loro estimatori e dei loro critici, senza possibilità di paragone con la pur nutrita, apprezzata e significativa platea degli altri artisti loro contemporanei.
Pur senza poter approfondire, non si sbaglia ad affermare che, con la sua eclettica attività di poeta, romanziere e conferenziere, Fogazzaro ottenne consensi internazionali di chiaro successo tanto da soverchiare, tra i tanti, Giovanni Verga, Gabriele D’Annunzio e Giosuè Carducci, distinguendosi per la particolare caratteristica del suo metodo di lavoro, che fu minuzioso e preciso fino all’esasperazione (come dimostra la lunghissima elaborazione delle sue opere, riviste e corrette decine di volte) e che testimonia tutte le fatiche del letterato che attende al proprio lavoro in totale immanenza partecipativa, tanto da identificarsi nei suoi stessi personaggi, diversamente da quanto fecero altri scrittori di quell’epoca (Manzoni incluso), i quali proiettarono verso l’esterno la conciliazione ideale del loro
modus narrandi. Ugualmente dicasi per Segantini, artista non certo misconosciuto, tanto che il suo isolamento “logistico” non procurò particolare disattenzione nei suoi confronti da parte dei colleghi o della critica (un merito è non poco da attribuire all’incessante attività dei fratelli Grubicy): il suo nome compare in numerose Esposizioni internazionali e i suoi quadri furono sempre più ricercati dai collezionisti. Il successo di Segantini è attribuibile a quella sua innovativa tecnica pittorica con cui deponeva sulla tela, con pazienza e meticolosità, assieme ai colori i propri pensieri: uno per uno, filo per filo.
Si capì, dunque, che entrambi avevano creato opere in cui, in modo unico e straordinario, la loro idealità e la loro spiritualità sfumava in paesaggi interiori tra le ombre e le luci della narrazione delle loro anime. Forse il loro segreto sta in questo: nell’aver dato parola e colore a quel mondo esterno fatto di cose e di persone da cui non si sentivano estranei e di cui interiorizzavano l’importanza. È possibile in tal senso osservare la presenza di un comune lessico e di una comune semantica artistica in cui la narrazione (pittorica e letteraria) opera principalmente sui particolari, sulle cose minime: il tutto, volontariamente proteso “a dare colore” al contenuto narrativo portante. Infatti, in Segantini la ricerca e la cura del dettaglio minuto e minutissimo (per esempio, per i fili d’erba, i peli degli animali, le rocce), che trova risalto nella luminosità che solo la trasparenza dell’aria dell’alta montagna consente, restituisce al dipinto quell’impressione di vitalità che non è fotografia, non è verismo o realismo, ma, soprattutto, simbolismo. (Cfr. la lettera di GIOVANNI SEGANTINI all’amico Carlo Orsi (1896), riportata in GABRIELLA BELLI (a cura di), Segantini, Electa, Milano 1987, p. 19; “la mia tavolozza è la più semplice che immaginar si possa… Stabilite sulla tela le linee esprimenti la mia volontà ideale, procedo alla colorazione…” Parlando di tali «linee esprimenti la mia volontà ideale», Segantini dichiara che la sua pittura è, innanzitutto, verosimile ma non compiutamente realistica).
In modo non dissimile, soprattutto attraverso i dialoghi, il Fogazzaro romanziere enfatizza quel “mondo minore” popolato da personaggi-simbolo in cui gli ambienti, le espressioni dialettali, le caratteristiche fisiognomiche servono a dare vivacità al racconto che, in questo modo, guadagna un profilo di migliore determinazione rispetto all’iter narrativo principale. In buona sostanza, nell’arte di Segantini la scena e il paesaggio non sono le vere dominanti, bensì lo sono i colori – o, meglio, la luce che emanano i dettagli – che determinano una massima espressività artistica; analogamente in Fogazzaro, la storia raccontata non è la grande storia, ma è la voce del “piccolo mondo”, quella che trascina emozionalmente il lettore alla comprensione del messaggio narrativo di fondo. Non a caso, nessuno dei due affrontò artisticamente le dissonanze sociali della fine dell’Ottocento anzi, nelle loro opere Segantini e Fogazzaro si astennero da qualsiasi interessamento per questo aspetto, principalmente per non snaturare il senso e il valore della loro creatività così geniale, così individuale. Seppur non estranei alle disamine che il crescente contrasto sociale esercitava anche in campo artistico ed intellettuale, entrambi scelsero di lavorare in pieno isolamento quale condizione ultima per poter sfogare la propria vena artistica in piena serenità, in modo distaccato da ogni giudizio facilmente influenzato da una polemica di schieramento.
Non a caso, la critica e il pubblico furono sempre benevoli nei loro riguardi e la loro notorietà, del resto, è testimoniata dalla ricca corrispondenza che mantennero con i migliori nomi della cultura del tempo: rapporti epistolari frequenti, ricchi di contenuto, che dettero ad entrambi il modo di chiarire, precisare con serenità e schiettezza le proprie opinioni. Ed è proprio dalla lettura di quelle pagine, ovviamente da intrecciare con quanto espresso nelle loro stesse opere nell’arte pittorica e nella scrittura, che è possibile dedurre quali siano gli aspetti che caratterizzano una “affinità elettiva” che li rende tra loro simili e vicini. Senz’altro più ricchi, articolati e complessi risultano i carteggi di Fogazzaro, personaggio assai presente e richiesto nella società del proprio tempo: nella sua non breve vita di letterato, corrispose con costante frequenza alle personali e solide amicizie con politici, uomini religiosi, scrittori, ma anche con famigliari e svariati estimatori, soprattutto appartenenti al gentil sesso. Benché meno numerose (ma qualitativamente non inferiori), anche le corrispondenze di Segantini – che rifuggiva, se non dalla noia, dalla temuta invadenza di una vita sociale che obbliga a frequentazioni non sempre desiderate – sembrano abbracciare una larga platea di amici e ammiratori e affrontare argomenti di piena rilevanza ed estesi su un ampio raggio d’interessi. Determinante, lo sappiamo, è da considerare il fil rouge epistolare con la scrittrice Neera che avviò ed alimentò il contatto di Segantini con la cultura milanese (in cui Fogazzaro liberamente spaziava da protagonista) in cui poté ritrovare le premesse della propria matrice artistico-spirituale.
Focalizzando lo sguardo su quelle riflessioni di Segantini che possono più utilmente servire ad una comparazione con Fogazzaro sui medesimi temi ed argomenti, emerge da un quadro generale ed in estrema sintesi come il profilo artistico da entrambi ricercato sia stato quello di tendere a riconciliare, senza mediazioni, l’uomo con la Natura (per Segantini) e l’uomo con Dio (per Fogazzaro): obiettivi, come si capisce, non di certo tra loro divergenti. Si confrontino le parole dello stesso Segantini (“noi possiamo dedurre che il bello in natura esiste perché lo vediamo e lo sentiamo, ed il modo e la misura di sentirlo sono in relazione della nostra capacità spirituale. Così l’opera d’arte essendo una interpretazione della natura, più essa racchiude elementi spirituali e li riproduce con sentimento e nobiltà di forme, più si allontana dalla percezione volgare”, Scritti e lettere, cit., p. 25) e il commento a Fogazzaro di Piero Nardi: «al Fogazzaro [è] sempre stata intollerabile la concezione di un Dio staccato dalla Natura. Tutte le creature sono come dei sacramenti o delle cortecce visibili dell’essere invisibile di Dio, nascosto sotto di esse», Fogazzaro su documenti inediti, Editore Ermes Jacchia, Vicenza 1930, p. 156).
Di fronte alla disperazione che il dolore crea quale massimo estremo in cui l’uomo si trova a dover fare i conti con sé stesso, possiamo cogliere le diverse ma non dissimili spiritualità verso cui i due artisti innalzarono la propria mente: il panteismo nel Segantini, la trascendenza nel Fogazzaro. A tal proposito si può esporre un altro piccolo confronto tra i due: «Non cercai mai un Dio fuori di me stessa perché ero persuasa che Dio era in noi e che ciascuna di noi ne possedeva e ne poteva acquistare facendo delle opere belle, buone o generose; che ciascuna di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell’universo» (da GIOVANNI SEGANTINI, L’anima, dedicato alla scrittrice Neera nel 1891 – Archivio Martinelli, Milano); «si conviene all’Arte […] di allettare gli uomini alla contemplazione
del dolore insanabile, fatale e fermo, perché soltanto dalla piena coscienza di tutto il dolore può emergere un perfetto sperato ideale di gioia; […] e nel moltiplicarsi di tale bellezza (dell’Arte) io credente vedo moltiplicarsi realmente i contatti del desiderio umano con l’infinito, vedo quello più e più nel contatto accendersi, questo più e più concedersi clemente, e così predisposta la ultima gioia del loro congiungimento; mi si rivela intera nel suo sublime disegno la elaborazione del dolore nell’Arte dalle oscure fonti di lei sino alla foce tutta riverberante gl’imminenti splendori del regno di Dio» (ANTONIO FOGAZZARO, Il dolore nell’Arte, Baldini & Castoldi, Milano 1912, pp. 38-39).
In buona sostanza, ci sembra possibile rilevare che questa loro tensione mentale si sia rigenerata in un pathos emozionale che fu il linguaggio vincente di cui tutti si accorsero: nel decadentismo letterario di Fogazzaro e nel simbolismo pittorico di Segantini la semantica utilizzata è quella del sentimento. Nel confronto a distanza tra l’artista e lo scrittore sembrano oltremodo rivelatrici di un comune pensiero questi due accostamenti, che ben riprendono e sintetizzano la convergente tensione morale: «l’Arte deve rivelare sensazioni nuove allo spirito dell’iniziato. […] Mercé sua, le più lievi
e fuggevoli impressioni vengono rese più intense e fissate nel cervello, commovendo e fecondando lo spirito superiore che le sintetizza: ed ha luogo allora l’elaborazione che traduce in forma viva l’ideale artistico» (G. SEGANTINI, Scritti e lettere, cit., p. 27); «E allora diciamo che il Fogazzaro […] non si è fermato gli involucri corporei; e dagli istinti partendo, è salito ad esplorare quella superiore regione dell’interiorità umana in cui il senso si trasforma in sentimento, e poi l’altra, dove i sentimenti appaiono sublimati dall’intelletto e talora irraggiati dalla luce del trascendente”. (P. NARDI, Fogazzaro su documenti inediti, cit., p. 230).
Nel realismo della poesia e dei romanzi dell’uno come nel lirismo delle immagini e delle visioni dell’altro è facile cogliere il delicato mistero dei moti dell’animo che tocca la vita degli uomini e dalla cui profondità entrambi seppero trarre con convincente efficacia parole ed immagini tali da suscitare in tutti noi un positivo pensiero di possibile redenzione. È senz’altro interessante confrontare le due seguenti testimonianze: «Come ebbe a dichiararmi il Fogazzaro, nel personaggio di Luisa egli intese rappresentare una natura nobilissima e veramente superiore, onde riuscisse più eloquente e concludente il fatto che nella prova del dolore lo spirito, non assistito dalla fede, si oscura, si perde; mentre spiriti assistiti dalla fede sono quasi rigenerati dal dolore, acquistano una nobiltà, una energia straordinaria» (scritto di SEBASTIANO RUMOR del 29 dicembre 1896, in PIERO NARDI, Antonio Fogazzaro, Mondadori, Milano 1938, p. 422); «L’elegia del dolore si risolve qui [nel dipinto Il dolore confortato dalla fede] in un mite canto consolatorio pieno di speranza. […] Vicino alla croce cimiteriale appare la visione del sudario della Veronica con il volto del Redentore. Ma se leviamo lo sguardo oltre la dentellatura delle creste montane, dirigendolo sempre più in alto vero il limpido etere, nella lunetta approntata a tale scopo intravediamo una consolatoria apparizione celeste. Due angeli dalle grandi ali trasportano amorevolmente il cadavere nudo del piccolo in cielo, nel regno della gioia eterna. Quest’ultimo aspetto colpisce forse in modo particolare se si tiene conto del carattere di “libero pensatore” proprio di Segantini. Eppure nelle sue convinzioni etiche egli si collocava in tutto e per tutto su un terreno cristiano: a un artista dalla sensibilità così profonda non sarebbe mai passato per la testa di respingere il mondo interiore e la poesia del cristianesimo» (F. SERVAES, Giovanni Segantini, la sua vita e le sue opere, cit., pp. 148-149).
Leonardo Bistolfi, amico di entrambi, sintetizzò e sublimò nelle sue opere la poetica artistica di Segantini e Fogazzaro, a cominciare dal manifesto per l’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna del 1902 a Torino fino alla successiva realizzazione di monumenti funerari in cui è possibile riconoscere quanto abbia per lui contato la contemporanea conoscenza dell’artista e dello scrittore.
Dei rapporti tra Bistolfi e Segantini si conosce molto, mentre un po’ meno si sa delle sue relazioni con Fogazzaro. Tuttavia, la lettura di un intervento del celebre storico dell’arte Franco Barbieri (Per il Fogazzaro in Liberty e la “devota amicizia” di Leonardo Bistolfi: due biglietti inediti, Accademia Olimpica, Vicenza 1994) apre uno squarcio significativo se non addirittura conclusivo circa la convergenza dell’apporto culturale di Fogazzaro e Segantini nei riguardi di Bistolfi, il quale, nella primavera del 1900, seduto nella platea del Teatro Alfieri di Torino dove assisteva alla conferenza di Fogazzaro sul Dolore nell’Arte, ascoltando le parole di lui è da presumere che vide scorrere davanti ai propri occhi le immagini di Il dolore confortato dalla fede.
In conclusione, quindi, sopravvive in noi il pensiero che Fogazzaro e Segantini siano stati protagonisti di un periodo storico-culturale onorato con comportamenti ed intuizioni tra loro cumulabili. Vissero ed operarono su piani distinti ma paralleli, tra loro non vicini ma neppure molto lontani, poiché uniti nel sentimento di quelle azioni che elevano e nobilitano soltanto gli animi sensibili dei veri artisti.
Ricordando il suo passaggio da Vincenza, nel suo Viaggio di un povero letterato (1919) Alfredo Panzini scrisse: “Socchiudo gli occhi: vedo tutti i personaggi del Fogazzaro: le dame in tupé bianco: i signori xe tuti lustrissimi, con bei panciotti a fiorami […]. Ma Franco e Luisa del Piccolo Mondo Antico non sono lì. Essi stanno in disparte ed immoti: i loro occhi tranquilli e tetri si volgono verso la terra, dove siede di per sé, immemore, la piccola Ombretta […]. Ella porta le povere scarpette, cucite da sua madre; ella giuoca immemore con una sua povera bambola. Perché lagrimai allora in quel mattino? Perché vidi anche la barba nera, il volto terreo di Giovanni Segantini che dipingeva con sacri segni quel quadro, dove sopra un cimitero due angioli sostengono verso il cielo una piccola creatura?”
Nell’amalgama tra le espressioni artistiche di Segantini e le equivalenti espressioni letterarie di Fogazzaro si realizzò un incontro ideale unico al quale molto si deve per la comprensione della storia della nostra cultura tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: ciò che mancò, a causa della prematura scomparsa del pittore, fu un reale incontro tra i due artisti che – a noi piace pensare – prima o poi sarebbe senz’altro avvenuto.
Achille Piacentini